Parkinson e staminali: le nuove prospettive di cura nell’articolo del Dott. Teodori

Fossato di Vico – La Malattia di Parkinson (MP) è una patologia degenerativa del sistema nervoso centrale che colpisce in Italia l’1% circa della popolazione complessiva oltre i 55 anni. Gli esperti ritengono che la malattia sia il  risultato dell’incontro tra vari fattori ambientali a cui il  paziente è esposto durante la propria vita (sostanze tossiche, farmaci,  stili di vita, ecc), e una personale predisposizione genetica.

Il peso della genetica  è dimostrato dal fatto che circa il 13% dei pazienti affetti da Parkinson hanno un familiare di primo grado colpito dalla stessa malattia (figli,  genitori, fratelli, sorelle). Il rischio di sviluppare MP nei familiari di 1° grado è pari al 3%, un valore certamente basso ma in ogni caso maggiore rispetto a quello della popolazione generale che è del 1%. L’età, più che la genetica, ha un peso determinante nella manifestazione della patologia. Tra i soggetti affetti da MP solo il 5% ha un’età inferiore ai 50 anni e il rischio di sviluppare il Parkinson è inferiore all’1% prima dei 60 anni per poi aumentare gradualmente fino ad arrivare al 15% intorno ai 90 anni.

COSA E’ IL PARKINSON

Abbiamo già accennato che la malattia deriva da una degenerazione del Sistema Nervoso Centrale (SNC), degenerazione che non è diffusa come nell’Alzheimer o nelle demenze ma, al contrario, molto localizzata. Sono infatti solo i neuroni di una ristretta area cerebrale ad andare incontro a morte cellulare progressiva. Questa piccola porzione cerebrale, interessata alla degenerazione, è detta “SOSTANZA NERA” ed è localizzata nel mesencefalo.

I neuroni di quest’area comunicano con i centri nervosi deputati al controllo dei movimenti volontari del corpo, pertanto la loro atrofizzazione genera le ben note difficoltà motorie parkinsoniane che tutti noi conosciamo:

 

  • rigidità muscolare
  • tremori a riposo
  • instabilità posturale
  • distubi nella parola
  • postura flessa in avanti
  • cammino a piccoli passi
  • freezing (arresti improvvisi dell’andatura)

 

LA TRAMISSIONE NERVOSA: la sinapsi

Per comprendere un po’ più approfonditamente la malattia di Parkinson occorre fare una piccola premessa sulla modalità con cui le cellule cerebrali, i neuroni, comunicano tra loro.

Possiamo immaginare il Sistema Nervoso Centrale come una fitta rete di cellule interconnesse le une alle altre. Ogni cellula possiede lunghi filamenti che conducono l’informazione sotto forma di seganle elettrico da un neurone all’altro. In corrispondenza dei punti di contatto tra il neurone che trasmette il segnale e quello successivo che lo riceve è presente una “sinapsi“, ovvero una struttura “a bottone” in cui il segnale elettrico induce la liberazione di una sostanza chimica (il neurotrasmettitore) che permette la propagazione del segnale al neurone seguente:

Neuroni di aree distinte del cervello umano usano molecole diverse come neurotramettitori per la trasduzione del segnale.

Nel caso specifico delle cellule della sostanza nera il mediatore chimico impiegato è la DOPAMINA e il deficit di questa molecola nell’encefalo dei malati di Parkinson è l’elemento distintivo della malattia, espressione diretta della morte cellulare a cui vanno incontro i neuroni in quest’area cerebrale.

 

TRATTAMENTI FARMACOLOGICI

I trattamenti farmacologici convenzionali puntano a compensare tale carenza di dopamina per consentire ai soggetti affetti dalla malattia il ripristino di un controllo motorio accettabile. La somministrazione diretta di dopamina per via orale, l’approccio terapeutico più ovvio, risulta inefficacie per l’incapacità di questa molecola di penetrare nel Sistema Nervoso Centrale (SNC). Una simile strategia non darebbe quindi alcun vantaggio terapeutico e il paziente, al contrario, dovrebbe subire inutilmente gli effetti collaterali esercitati da questa sostanza a carico degli organi periferici (esterni al SNC) come nausea, vomito ed ipotensione ortostatica.

Da qui l’impiego della LEVODOPA, una vera è propria “dopamina mascherata” in grado di superare la barriera che protegge il cervello (barriera emato-encefalica o BEE) e di convertirsi, solo dopo essere giunta in loco, in dopamina attiva.

La levodopa è di fatto un farmaco “precursore” (pro-farmaco) che aggira l’ostacolo del mancato assorbimento diretto della dopamina. Viene spesso associata alla CARBIDOPA o alla BESERAZIDE, molecole queste che servono a limitare la conversione [levodopa → dopamina] negli organi periferici e a concentrare la stessa trasformazione dove è realmente utile ovvero a livello del SNC. Le più note formulazioni in commercio sono il Madopar ® (levodopa + beserazide) e il Sinemet ®, (levodopa + carbidopa).

L’individuo colpito da Parkinson trattato con levodopa trascorre un primo periodo, detto di “luna di miele terapeutica“, che dura da 2 a 5 anni dove la terapia controlla quasi totalmente i sintomi e l’individuo svolge una vita quasi normale. Con l’avanzare della degenerazione neuronale della sostanza nera la levodopa perde efficacia.

Un’altra classe di farmaci impiegata nel trattamento del Parkinson è quella degli AGONISTI DOPAMINERGICI. Farmaci questi che “assomigliano” alla dopamina e ne mimano l’attività sostituendosi ad essa nello spazio sinaptico. Questi medicinali sono rappresentati da un gruppo eterogeneo di molecole di cui cito solo i nomi commerciali più noti: REQUIP®, MIRAPEXIN ®, DOSTINEX®, NOPAR®.

Il ricorso a questi farmaci è limitato dai loro effetti collaterali come disturbi gastrointestinali, cardiovascolari, fibrosi,  sonnolenza e soprattutto, rispetto alla levodopa, da una maggiore frequenza di  problemi psichiatrici. L’uso di tali  farmaci infatti incide negativamente sull’ autocontrollo degli impulsi aumentando l’inclinazione del paziente verso il gioco d’azzardo, l’ ipersessualità e l’alimentazione incontrollata, tutti aspetti correlati direttamente alla loro attività dopamino-simile. Ricordo che la dopamina è il neurotrasmettitore del “piacere”, che è coinvolto non a caso nella generazione della dipendenza prodotta da molte sostanze d’abuso e che la stimolazione delle vie nervose dopaminergiche porta facilmente agli eccessi pocanzi accennati.

Esistono altri medicinali attivi nel trattamento del Parkinson ma sarebbe troppo impegantivo citarli tutti. I trattamenti farmacologici di prima linea sono certamente quelli finora esposti.

 

TRATTAMENTO CHIRURGICO : impianto di elettrodi (DBS)

La terapia chirurgica DBS (“Deep Brain  Stimulation” = Stimolazione Cerebrale Profonda) è una terapia   anti-Parkinson proposta ai malati in fase  avanzata con tremori e blocchi motori importanti, non  più controllabili dalla usuale terapia farmacologica. La DBS consiste in un dispositivo medico impiantato chirurgicamente, simile a un pacemaker, che invia una stimolazione elettrica ai centri nervosi del movimento simulando l’attività neuronale della sostanza nera.

«La DBS convenzionale ha costituito il maggiore progresso della terapia del Parkinson  negli ultimi venti anni. Ha rivoluzionato completamente la qualità  della vita dei pazienti in fase avanzata di malattia con scarsa risposta  ai farmaci». Lo spiega Paolo Rampini, direttore della Unità di  Neurochirurgia del Fondazione IRCCS Ca’ Granda Policlinico di Milano.

 

IMPIEGO (ancora sperimentale) DELLE CELLULE STAMINALI

Per avere un’idea più approfondita sulle cellule staminali rinvio il lettore a questo articolo sempre su Farmamente. In questa sede, per dovere di sintesi, ricordo che le staminali sono entità cellulari “non differenziate”, ovvero non specializzate, in grado di evolvere in esemplari cellulari diversificati. Sono cellule “bambine” simili, mi si passi la licenza poetica, ai giovani della scuola primaria che un giorno, avanzando negli studi, diverranno professionisti specializzati.

Le staminali possono essere di derivazione embrionale o generate tramite “retrogressione” (ringiovanimento) di cellule già evolute. In quest’ultimo caso la comunità scientifica aggira le obiezioni etiche legate all’impiego delle staminali embrionali. Il razionale del ricorso alle staminali nella cura della malattia di Parkinson è evidente: introdurre nell’area cerebrale della sostanza nera delle entità cellulari aspecifiche in grado di rigenerare, per differenziazione successiva, gli elementi neuronali persi. In questo caso non si tratterebbe di un trattamento sintomatico della malattia, come con le levodopa, bensì di una vera e propria cura definitiva del Parkinson. Bellissimo !!

Ebbene è di novembre 2018 la notizia che un paziente giapponese di 50 anni, ammalato di Parkinson precoce, è il primo  essere umano a ricevere un impianto di staminali nel proprio cervello con le finalità appena espresse. Se il decorso sarà positivo la terapia sarà testata su altri sei pazienti e forse diventare ampiamente disponibile entro cinque anni. Il trattamento prevede l’utilizzo di  cellule staminali pluripotenti indotte (iPS) ottenute riprogrammando le cellule dei tessuti corporei, come  la pelle, in modo che ritornino a uno stato simile a quello embrionale,  da cui possono poi ritrasformarsi in altri tipi di cellule specializzate come i neuroni. In ottobre 2018 il neurochirurgo Takayuki Kikuchi, dell’Ospedale universitario di Kyoto, ha impiantato 2,4 milioni di cellule precursori  della dopamina nel cervello di un paziente di 50 anni. Nella procedura,  durata di tre ore, il team di Kikuchi ha depositato le cellule in 12  siti, noti per essere centri di attività della dopamina.

Le cellule  precursori della dopamina hanno fin’ora dimostrato di migliorare i sintomi del  morbo di Parkinson nelle scimmie.

“Il paziente sta bene e non ci sono state reazioni avverse importanti  finora”, dice Takahashi. Il gruppo lo terrà in osservazione per sei mesi  e, in assenza di complicazioni, impianterà altre 2,4 milioni di cellule  precursori della dopamina nel suo cervello. Il gruppo prevede di  trattare altri sei pazienti con   malattia di Parkinson per verificare la sicurezza e l’efficacia della tecnica entro la fine del 2020.

Dott. Stefano Teodori www.farmamente.it