Storia di Melano, di frigoriferi, di sindacalisti, di uomini e di donne…

16487777_10210623728823497_561144185789599569_oChi meglio di Stefano Balestra può raccontare lo stabilimento di
 Melano. Operaio, giornalista, sindacalista, ne ha una conoscenza profonda. Presente anche all’accordo con il governo di Matteo Renzi…

Come nasce e come si evolve il frigorifero, elettrodomestico un tempo sconosciuto e in breve tempo diventato oggetto indispensabile in tutte le abitazioni?
Per tanti anni, è stato considerato uno status-symbol, l’icona di un’ epoca, quella16665967_10210623729703519_7104152044886674559_o del “boom economico” italiano a cavallo della fine degli anni cinquanta ed inizio anni sessanta. Il frigorifero insieme alla Fiat 600 ed alla televisione, fu appunto uno dei simboli del miracolo economico italiano tra il 1958 ed il 1963 ed oltre, tanto per limitarci ad uno dei titoli più abusati, al fine di dare un sostanzioso contorno storico. “L’amico di famiglia”, per dirla con uno slogan inventato da Borghi, patron della Ignis negli anni cinquanta, un marchio che per molto tempo rimarrà indissolubilmente legato Frigidaire_iceless_fridges_1922al suo capostipite. All’epoca di famiglie dotate del frigo, ce n’erano appena cinque su cento. Era l’epoca in cui il frigorifero si apriva con il pedale. Grande impulso alla diffusione venne dato dalla pubblicità, nonché dai film americani, che avevano il frigorifero quasi come personaggio fisso nel cast. Del resto lo avevano inventato loro, e chi altri se no. I primi modelli erano ingombranti, poco capienti e molto rumorosi. Il primo elettrodomestico del freddo per famiglia esce nel 1913, si chiama Domalere e per costruirne 40 pezzi fino al 1916 ci vogliono due anni, e alla General Motors rilevarono il nome ed il brevetto ribattezzandolo Frigidaire e iniziando a costruirli nel 1918 a Detroit, capitale mondiale dell’automobile. In Italia e ben presto in Europa, gli italiani da Fumagalli a Borghi a Zoppas, a Merloni, gli esponenti della cosiddetta “economia del cespuglio”, fatta di piccole e medie imprese, si rafforzeranno e la faranno da padroni, trasformandosi nei nuovi grandi protagonisti della scena produttiva italiana, tanto da diventare vere e proprie dinastie industriali.

Che cosa ha rappresentato per l’economia italiana la produzione degli “elettrodomestici bianchi”?
L’industria dell’elettrodomestico è un settore nuovo per l’Italia dove, all’indomani del secondo conflitto mondiale, non esistevano imprese specializzate. Dal 1945 al 1970, nasce e si sviluppa l’industria del bianco in Europa, per soddisfare la domanda di primo acquisto, la famiglia tipo infatti acquista inizialmente solo il frigo o la lavatrice, intercalata negli anni ’60 da un processo di selezione e concentrazione che determinò una sensibile riduzione del numero dei produttori (ad esempio dal 1960 al 1974 i produttori di frigoriferi si ridurranno da 60 a 12, con pochissime imprese in grado di produrre l’intera gamma degli elettrodomestici). Ben presto l’industria italiana diventa la prima in Europa e la seconda nel mondo, dopo gli USA, nel 1964 produce 3,5 milioni di pezzi, nel 1970 produce 9 milioni di pezzi, passando in termini di quote sulla produzione europea dal 28 % al 44%.

Nel dopoguerra le famiglie italiane erano abituate a fare la spesa giorno per giorno, non a conservare gli alimenti. Come hanno accolto la novità rappresentata dal frigorifero?
Era nel cuore della Brianza, nell’Ignis del commendator Borghi, che si assemblavano frigoriferi che porteranno la “rivoluzione del freddo” nelle case di mezza Italia e di mezza Europa, cambiando anche gli usi e i costumi degli italiani, come ad esempio l’arrivo della fettina, ovvero la carne tutti i giorni senza problemi di conservazione, sottraendo al contempo fatica al lavoro femminile casalingo, diventando un prezioso alleato nella sempre più complessa organizzazione della vita quotidiana, fino forse a rivoluzionare, con la loro comparsa l’esistenza femminile, forse più di tante ideologie. E la cucina stessa che negli anni trenta era il luogo dedicato alla preparazione dei cibi, si trasformò in luogo di aggregazione della famiglia, e gli elettrodomestici, da utensili, si trasformarono in elementi di un insieme da vivere quotidianamente. Ma mezzo secolo dopo, le cose sono cambiate…

Quanto hanno contato, nella diffusione capillare dell’elettrodomestico, il perfezionamento della tecnologia e il contenimento dei prezzi? E quali aspetti hanno maggiormente determinato la riduzione dei costi?
Quel prodotto, che come detto in pieno boom economico, era stato il simbolo dei “signori” del bianco di casa nostra, come Ignis, Zoppas, Candy, etc.., vede il proprio mercato ormai stabile da anni, visto che il tasso di penetrazione, di questo prodotto è del 99%. Praticamente ce l’hanno tutti e nessuno potrebbe rinunciarvi, quando oltre quaranta anni fa, serviva per modelli assai meno efficaci di quelli moderni una cifra equivalente a 210.000 £, che rivalutati corrisponderebbero a circa 2400,00 € dei tempi nostri. In termini storici se si confronta il prezzo del 1960 e quello attuale, il prezzo è quasi quintuplicato, ma confrontando il dato del 1960 rivalutato e quello di oggi, si scopre come sia diminuito di quasi cinque volte. Certamente dotarsi di un frigorifero oggi, richiede uno sforzo economico inferiore rispetto al passato, ed i motivi di questa riduzione di incidenza dei prezzi del frigorifero, sul bilancio delle famiglie italiane sono sostanzialmente due: le economie di scala e l’avanzamento tecnologico. Allora, negli anni sessanta-settanta c’era una grande fame di elettrodomestici, ma non tutti potevano permetterseli. Successivamente a quegli anni in cui l’abitudine era quella di fare le spesa e consumare i prodotti giorno per giorno, nei due decenni successivi il frigorifero è diventato indispensabile nelle case degli italiani e la produzione di massa si è imposta. L’avanzamento tecnologico insieme alla concorrenza tra le tante case produttrici ( fino a 50-60 marchi negli anni 60-70), sono l’altro punto chiave per spiegare la riduzione dei prezzi. Le politiche di flessibilità produttiva ed infine lo sviluppo della grande distribuzione hanno ridotto ulteriormente i costi industriali e favorito il contenimento dei prezzi. Insomma beni abbordabili che sono cresciuti meno dell’inflazione e lo sviluppo tecnologico è andato incontro al consumatore, infatti tutto ciò che è frutto della ricerca oggi costa meno rispetto al passato.

Com’è cambiato il frigorifero, sia esteticamente che tecnologicamente, e a quali target di riferimento si rivolge il mercato?
850127401000_1000x1000_closedIl classico “due porte” free-standing, ossia da libera installazione, si vende solamente nei paesi dell’est. L’alternativa che resta ai produttori del settore, per rendere un prodotto appetibile, in un mercato ormai saturo, come quelle dell’Europa dell’occidente, è cercare di convogliare la domanda su prodotti, con caratteristiche tecnologicamente più avanzate, in gradi di motivarne l’acquisto, come ad esempio il risparmio energetico, senza dimenticare l’appeal estetico, visto che il frigorifero, è il primo elettrodomestico che si vede entrando in cucina. Oggi in commercio se ne trovano dei più svariati, a volte sempre più spesso simili a colorati pezzi d’arredamento, da quello su cui scrivere sopra con il pennarello, a quello colorato con la bandiera italiana o l’Union Jack inglese, da quello in grado di farti gustare la birra alla spina a quello in cui ci puoi mettere dentro la spesa di un mese intero a quello ancora con spazi interni con temperature differenziate, che permettono di prolungare i tempi di conservazione degli alimenti, mantenendone inalterate le caratteristiche organolettiche. Oggi gli apparecchi sono tecnologicamente sofisticati e superaccessoriati e l’elettronica li ha resi “intelligenti” ed affidabili, con prestazioni di altissimo livello. Ne ha fatta di strada il frigorifero, da quando due svedesi, scoprirono che si poteva produrre il freddo per mezzo del calore. Un “armadio elettrico”, da caricare ogni tre, quattro giorni con blocchi di ghiaccio acquistati appositamente.

Come si è mosso il cosiddetto “distretto del bianco” marchigiano per far fronte alla globalizzazione e cosa sta cambiando in termini di produzione?
Oggi a dominare è la globalizzazione, neologismo a farla da padrone nei nostri discorsi quotidiani, con la famigerata delocalizzazione, la sua espressione più eloquente. Nuovi mercati su cui puntare sono quelli dell’est Europa, dalle grosse capacità, sia produttive per i bassi costi della manodopera e sia appetibili come mercato di vendita, i produttori emergenti di oggi saranno i mercati emergenti di domani. Oggi come oggi, lo stabilimento di Melano-Marischio, sta vedendo la produzione degli ultimi frigoriferi, per lasciare posto ai prodotti della cottura, così come previsto dall’accordo sulla sua riconversione, siglato lo scorso anno. Dopo circa quaranta anni, il sito della Indesit Company, vedrà cambiare la propria mission produttiva. Costruito nel 1969, l’anno successivo vide nascere la produzione di frigoriferi, trasferendo ed ampliando l’esperienza dell’Alia, un’azienda del settore con sede a Milano, acquistata dall’allora Ariston nel lontano 1966; negli anni ruggenti, in cui la globalizzazione e la delocalizzazione neanche si sapeva cosa fossero, venivano sfornati circa 3000 pezzi quotidiani, per un totale di 600000 frigoriferi all’anno, impiegando anche oltre 600 operai, in una vera e propria crescita esponenziale, rappresentando per oltre tre lustri anche uno sbocco occupazionale per numerosi lavoratori delle zone limitrofe al fabrianese, come la vicina Umbria, il primo pesarese, ma anche per maestranze provenienti da altre parti d’Italia.

Quali sfide hanno dovuto affrontare lavoratori e sindacato nel corso degli anni, e quali traguardi sono stati raggiunti?
A Melano, stabilimento da sempre penalizzato per le proprie ridotte dimensioni in termini di volumi, di sfide, lavoratori e sindacato ne hanno giocate e vinte tante, dalla flessibilità a volte innovativa, che costringeva a lavorare come matti, come le due settimane di ferie ad agosto, invece delle tre settimane tradizionali o le quattro di tutte le altre aziende del circondario, oppure il sabato pomeriggio lavorativo o le feste comandate od il ciclo continuato, oppure i sabati lavorati in estate con il recupero in periodi di bassa stagionalità, quando non c’era lavoro, in autunno ed in inverno, per il frigorifero, per poter arrivare prima degli altri sui mercati internazionali o come ad esempio il premio 2004 come migliore stabilimento dell’Indesit Company per la qualità realizzata. Un traguardo non di poco conto, se si pensa che tra i paletti del successo odierno c’è anche questo fattore, al quale il cliente oltre all’estetica ne fa una necessità per fidelizzarsi ad un “brand”, come si dice oggi, il marchio come si diceva ieri. Eppure anche la flessibilità chiesta ed ottenuta, oggigiorno non basta più. E non si parla di chissà quanti anni fa, ma di un paio, al massimo tre anni fa. E neanche nel 1997, nella tragica situazione post-terremoto, dove era emerso con chiarezza lo spirito più autentico delle popolazioni, con molti lavoratori provenienti dalla penalizzata Umbria, che pur convivendo con la terra che trema andava puntualmente a lavorare, si era arrestata la crescita e di volumi e di occupazione di uno stabilimento, situazione che esprimeva l’atavica inclinazione dei marchigiani e dei loro “cugini” umbri, di lavorare come matti, tanto da diventare quasi ideologia produttiva. C’erano due leve per poter crescere, innovazione e disponibilità della gente, e a questa gente, si poteva chiedere qualsiasi cosa. Il saper fare, la tenacia, la passione, l’orgoglio e l’impegno dei discendenti del “metalmezzadro”, la figura dell’operaio-contadino, un tempo irrisa dai supporter e dai soloni dell’industria metropolitana, al centro del modello marchigiano, con ai vertici fabbrica, casa e famiglia, erano stati modelli vincenti che non erano stati scalfiti, così come le idee di Aristide Merloni, che affondavano le radici nell’Italia contadina ed artigiana del ’900. Del resto in quegli anni, era difficile resistere al fascino del reddito, dell’occupazione, del benessere, della ricchezza prodotta, delle auto e delle case possedute in ogni famiglia, che aumentavano in maniera esponenziale, in cui tutto andava come un “treno”. Erano gli anni in cui il “piccolo è bello”,una nuova “via italiana al capitalismo”, una grande onda, uno tsunami, come si definirebbe oggi che ha portato vantaggi e benessere a tutti, da imprese a lavoratori al sindacato stesso.

Parliamo di delocalizzazione. In che modo ha riguardato il settore del “freddo” e come ha reagito l’industria?
Di tutte le sette “majors”, ossia gli elettrodomestici bianchi di grandi dimensioni, il più sofferente di tutti è sicuramente il frigorifero, prodotto dato per morto per raggiunta maturità da diversi anni, sostanzialmente povero (un compressore ed una scatola metallica), dai limitati ambiti di innovazione, che d’altro canto per le sue dimensioni elevate esige alti costi di trasporto, fattore quest’ultimo non di poco conto visto che i mercati di sbocco, come detto, sono quelli dell’est Europa, e quindi purtroppo appare lapalissiano produrlo laddove si può vendere, essendo industrialmente presenti nel mercato che si vuole presidiare, sia per una questione di sviluppo del business, che per ottimizzare i costi senza dimenticare, ad esempio, che la metà degli elettrodomestici Indesit è venduta sui nuovi mercati. La competizione con i produttori emergenti, sia asiatici ma anche turchi è giocata sul costo di produzione, e guardando il costo del lavoro, 2 € in Russia, 3 € in Polonia, 4 € in Turchia, si capisce perché i produttori italiani siano svantaggiati. I paesi dell’Europa dell’est, soprattutto quelli da poco entrati a far parte della UE, spinti anche dall’impulso e dall’ansia di modernizzazione, offrono condizioni ideali, dati i bassi salari, il buon livello di qualificazione della manodopera, le tradizioni industriali, l’alto tasso di disoccupazione e l’ansia di entrare a far parte del gruppo di punta dell’economia mondiale, a costo di rinunciare ai vecchi sistemi di protezione sociale, dove a volte la deregulation socio-economica regna assoluta e dove anche la tutela sindacale dei lavoratori risulta praticamente assente. Insomma governi che riformano le leggi ed offrono condizioni uniche, come ad esempio i prezzi competitivi dell’energia, una fiscalità sulle imprese bassa, ad esempio in Polonia; quest’ultimo aspetto pesa la metà rispetto all’Italia. E nel paragone, il costo del lavoro si riduce addirittura a un quarto, tra orari più lunghi, vacanze più corte, stipendi contenuti e oneri ridotti. Tutti fattori decisivi per le scelte produttive e commerciali, perché rendono competitivo il rapporto fra numero e costo di addetti e quantità prodotte, facendo divenire questi paesi dei veri e propri “paradisi produttivi”, e delle calamite per gli investimenti. Finché c’era crescita economica, per le aziende italiane era fondamentale il vantaggio del prodotto derivante da creatività, innovazione, design e meno importanza si dava ai processi organizzativi. Oggi invece quella formula industriale, che comunque stranamente continua a destare interesse all’estero, sembra essere entrata in crisi, giacché in molti aspetti della produzione, si lavora limando i centesimi. La liberalizzazione del commercio mondiale e l’eliminazione delle frontiere segnano la fine di antiche certezze e senza inoltre poter più contare sulla leva della svalutazione alla bisogna della “defunta” lira, che tanti vantaggi sul mercato mondiale ci ha regalato.

Il settore del “freddo” è ancora dinamico o si punta su prodotti diversi?
“Un altro problema contingente del settore freddo è stata la contrazione dei consumi, che ha penalizzato i budget improntati alla crescita, dopo che negli ultimi due anni si era venduto parecchio. Ecco quindi la decisione di puntare sui due grandi poli del freddo da parte di Indesit Company, quello di Lodz in Polonia e Lipetzk in Russia, mentre in Italia resta lo stabilimento di Carinaro a Caserta, dove la standardizzazione del prodotto rende ancora competitiva la sua produzione in Italia. Così i prodotti di cottura in vetroceramica che stanno uscendo, da fine 2005 ed inizio 2006, perlopiù built-in, da incasso, che sostituiranno i frigoriferi, sono più facili da trasportare, viste le loro dimensioni ed inoltre l’alto contenuto di design e tecnologia, con conseguenti margini di guadagno, rendono possibile la loro produzione in Italia, oltre ad esaltare il marchio e le capacità tecniche rispetto alla concorrenza. Secondo gli analisti del settore, si salveranno solo le produzioni di fascia alta, quelle di prodotti ad alto valore aggiunto, dove i clienti sono disposti a riconoscere il valore della marca, mentre il resto è destinato ad essere delocalizzato. Una via quella dell’est, dalla Polonia alla Repubblica Ceca, all’Ungheria, alla Romania che ha subito un colpo di acceleratore, grazie anche ai ricavi sotto pressione da un lato e la pressione sui prezzi, determinata dalla concorrenza delle tigri asiatiche, una vera e propria guerra selvaggia che ha bruciato spazi di manovra, azzerando o quasi i margini di guadagno; perseguita anche dagli altri produttori di frigoriferi ed elettrodomestici in genere, da Candy, a Whirlpool, a Zanussi ai coreani, costruendo siti produttivi o acquistando stabilimenti già attivi in quei paesi, nei quali in passato venivano indirizzate le esportazioni. Anche la Antonio Merloni, il terzista più grande del settore, che ora sta riconvertendosi alla valorizzazione dei marchi propri, aprirà un sito in Ucraina. E qualcuno si è spinto ancora più ad est, in Asia o nel centro america. Si sa, l’economia è una scienza triste, guidata da leggi spietate, che propongono a velocità supersonica una trasformazione radicale dell’ambiente industriale nel quale siamo cresciuti e abbiamo prosperato e se non le conosci, ti assesta certe mazzate da lasciarti di sasso.”

Dal blog di Stefano Balestra

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