WONER LISARDI racconta la sua vita

Woner Lisandri

WONER LISARDI racconta la sua vita

Sono nato a Sassoferrato il 10 luglio 1924, ma per ragioni politiche sono stato registrato l’11 luglio; il perché è sciocco, lo voglio dire: Il mio nome è Woner, e questo nome per i fascisti non era scrivibile ; in quel tempo mio padre Gregorio Lisardi era in Francia perché era ricercato dai fascisti per fatti avvenuti nel 1921, mia madre non poteva cambiare il mio nome, per cui passarono i giorni, e all’anagrafe dopo giorni furono costretti a mettermi quel nome . Come ho detto mio padre era Gregorio, mia madre Sabbatini Nella (Lella per tutti) era figlia di Ugo e Tiberi Celeste, da sposata si sistemò in casa dei genitori perché il marito era dovuto fuggire dall’Italia per i motivi sopra citati. Mia madre quando il marito emigrò aveva una figlia Raimonda. Mio padre in Francia ebbe un infortunio grave nella miniera dove lavorava ed appena guarito tornò in Italia, però era grande invalido ed i fascisti lo dovettero accettare, ma quando attentarono l’ON Matteotti dovette emigrare di novo. Mia madre per poter vivere lavorava presso le famiglie della Maestra Lucci e della famiglia Pareschi Vitaliano come donna di servizio. Nelle ore libere andava al fiume a lavare la biancheria delle famiglie benestanti che la retribuiva con generi alimentari e qualche vecchio abito, che poi mamma di notte aggiustava per me e mia sorella. Mamma quando andava a lavare al fiume in inverno portava sulle spalle una sciarpa nera dove spesso ci infilava le mani che l’acqua fredda le gelava. Quando pioveva io e mia sorella con due ombrelli la coprivamo mentre lei in ginocchio su una pietra lavava. Io di giorno giocavo avanti l’officina Toni ma di notte pensavo alle prime norme di vita che mi inculcavano i nonni materni. Nonno Ugo era molto portato per raccontare le avventure di suo padre che aveva combattuto nella la prima guerra per l’unità d’Italia (1848 ), poi non potendo rientrare nella sua terra perché ancora terra dei Papi si arruolò con Garibaldi per combattere in Sicilia; per lui suo padre fu un patriota. A sei anni mi mandarono a scuola, la prima maestra sichiamava Livia Rossi, veniva dall’Emilia di idee, per quel tempo molto aperte, ci parlava molto dell’Italia che era la nostra Patria spiegandoci che cosa voleva dire” Patria” e perché nella guerra 1915-18 morirono 600 mila soldati e fra quei soldati ci furono tanti Eroi che morirono con la parola in bocca( muoio per te o Patria mia). La maestra ci parlava ancora dei trattati in merito all’alleanze degli stati che stavano combattendo e che da grandi, se avessimo studiato avremmo capito meglio ciò che diceva.**** quelle parole mi sono rimaste impresse, e da grande ho studiato e scoperto ciò che voleva dire la maestra e lo scriverò più avanti. Dalla terza elementare andai in classe con il maestro Melchiorri Zeffirino che ci condusse fino alla 5°, era un cacciatore di eccelsa bravura secondo i suoi colleghi, era anche un maestro molto colto e noi, quando passammo alla Scuola di Avviamento ci trovammo bene e preparati. In quel tempo il regime fascista era all’auge per cui i bambini dovevano avere pantaloncini grigio verde e camicia nera, che si comperavano presso Opera Nazionale Balilla. Io non possedevo quel completo per cui chiamarono mia madre presso l’Opera Balilla dicendogli che anche io, per recarmi alle Adunate come gli altri dovevo avere la divisa da balilla. A quella richiesta mamma rispose che dopo tanto lavoro che faceva, e tutti in paese lo sapevano, non aveva danaro anche per le frescacce che inventa Mussolini; a quel punto, per non denunciarla per vilipendio a Mussolini mi regalò la divisa da balilla con la promessa di attenermi agli ordini dei superiori. Dopo pochi giorni ci mandarono al campo del Tiro a Segno ad organizzare un campeggio, dovevamo vivere come militari, si mangiava bene, si dormiva sotto la tenda con la paglia, si stava bene specie per noi ragazzi che conoscevamo i campi dei veri soldati. Un giorno stavamo giocando in riva al fiume Sanguerone che ancora portava tanta acqua quando un ragazzo scivolò dentro il fiume, quando mi accorsi che la corrente lo trascinava, essendo più grande mi gettai nella corrente e lo trascinai fuori. Fui l’eroe dei miei coetanei e l’Opera Balilla in una Adunata mi consegnarono una croce al merito che mi appuntarono sulla camicia nera, perciò per i miei coetanei che mi seguivano nei giochi sempre sui fiumi io ero il Corsaro nero ed anche oggi uno di quei ragazzi, diventato il primario di un ospedale di Venezia quando mi incontra, mi dice:. Come entrammo nella scuola superiore, dove si studiava materie molto varie, noi maschi ci appassionammo alle materie più tecniche fra cui officina, disegno tecnico, matematica ecc. Mi ricordo che un giorno mentre eravamo in classe con il professore Mario Garofoli sentimmo un frastuono per le strade, il prof. non ci fece guardare così proseguimmo la lezione fino la fine. Il frastuono che sentimmo era un corteo di popolo che festeggiava la presa italiana del Forte di Macallè in Abissinia; il giorno dopo quando ritornammo a scuola il Professore Garofoli non c’era più, il Regime Fascista non tollerava un affronto come quello, di non aver fatto partecipare gli alunni al corteo, il forte di Macalllè fu la prima vittoria della guerra fascista in Abisinia. (o Etiopia,) La guerra contro il Negus Ailè Selaissie durò poco tempo per la superiorità delle armi italiane. Le truppe abissine armate maggiormente con lance e frecce e pochissime armi da fuoco non ressero l’impeto dell’esercito italiano che bene armato per quel tipo di guerra finì con la fuga del Negus e l’entrata ad Addis Abeba(capitale Etiopica) del Generale Badoglio su un cavallo bianco. (figura da farsa ) Dopo la scuola mi mandarono a imparare un mestiere ed io scelsi il meccanico tecnico e l’unico posto era una officina molto quotata nella zona, era quella di Toni Giovanni ( Nanni ) per tutti. Il primo giorno mi accompagnò mia madre, come entrai mi venne incontro un giovane di bottega che da tempo lavorava lì. Mi conosceva come uno dei ragazzi più scapestrati del Borgo, mi prese per mano e mi portò in una grotticella dove si trovavano dei sacchi di carbone Koke, mi fece vedere ciò che dovevo fare, :spezzare un sacco di carbone in pezzi simile ad una noce, presi un martello e cominciai il lavoro, a mezzogiorno, si andava a pranzo e quando a casa mi vide mia madre mi disse: ma dove sei stato, sei più nero di Cattiola, ( carbonaio di Isola Fossara )dopo essermi lavato mani e faccia, mangiai e tornai a lavoro e finii di pistare, ( in gergo,) il carbone. Erano le sette pomeridiane. La mattina successiva come tornai in officina il solito giovane tentò di portarmi al posto del giorno prima, non mi piacque l’idea di Peppe Massi (così si chiamava il giovane) ed allora presi la porta per andarmene ma incontrai Edoardo il padre del proprietario che mi disse: io risposi che ero venuto per imparare un mestiere e non per rompere il carbone in eterno: Edoardo mi prese per un braccio e m portò avanti ad una macchia e mi disse: Lavorare in quella officina con quelle persone, Giovanni ed Edoardo si impara di tutto ciò che è meccanica ed io imparai veramente bene. Insieme a me in officina cerano altri meccanici bravi, erano : Guglielmo Stella, Spartaco Toni, Peppe detto il Negus perché sempre nero di polvere di carbone e Ilio Bellucci. Dopo circa tre anni di lavoro presso l’officina G. Toni, al Maglio di Fabriano, stabilimento metalmeccanico di fama nazionale, cercavano apprendisti tornitori ed io mi presentai, e feci una ottima figura ma; non potevo entrare perché ero di Sassoferrato, più figlio di un Anarchico. Mia Madre non si perdeva mai d’animo, si fece condurre da un amico al Maglio di Fabriano per sentire il perché non venivo assunto.; sentito il perché si rivolse al Segretario Federale fascista suo amico di gioventù, dicendogli che era una porcheria il comportamento del dirigente dell’ufficio di collocamento di Fabriano. Il Federale gli disse di far trovare su figlio alle 7 alla stazione di Sassoferrato, ed io come un orologio fui pronto; arrivò il Federale, Rodolfo Rossi che era anche direttore della scuola di Avviamento, che io conoscevo da quando frequentavo quella scuola, era in alta uniforme, e quando mi vide mi disse: scesi dal treno ed aspettai che lui scendesse dalla 1°classe, poi lui avanti ed io dietro ci avviammo per l’ufficio di Collocamento. Salimmo le scale ed entrammo; gli impiegati quando videro il Federale scattarono in piedi sull’attenti, Lui con la sua voce enorme chiese: Si aprì una porta ed entrò il capoufficio che vedendo l’uomo in divisa scatto anche lui sull’attenti. Il Professore Rossi chiese:< perché questo ragazzo non deve lavorare?> Il collocatore gli rispose: Perché è figlio di un anarchico e perché se c’è un posto di lavoro deve essere per uno di Fabriano.>il professore di rimando con voce autorevole gli rispose:, Mi diedero li nulla osta, corsi fino allo stabilimento dove consegnai il documento e il giorno dopo alle ore 6 cominciai a lavorare, come apprendista tornitore, in primo turno, dalle ore 6 alle ore14. Mi assegnarono un tornio moderno, non nuovo ma molto funzionale, il tempo impiegato sul lavoro era leggermente inferiore del consentito, ma dopo una settimana anche il tempo risultò alla pari degli altri. Il giorno di paga, quando aprii la busta scoppiai in un pianto dirotto perché la paga oraria era di£ 0,55 l’ora, piansi perché la busta conteneva una cifra così iniqua che mamma avrebbe dovuto integrare troppo per pagare la pensione dove vivevo. Il capo turno Livio Cacciamani disse ai tornitori il perché piangevo e loro smisero di lavorare, dopo pochi minuti, benché notte, venne in reparto il direttore Sig. Ventura ed il capo officina Sig.Biondi Umberto. Il capo officina ci disse subito di riprendere il lavoro perché quello che avevamo fatto era Sciopero e per quei tempi era un reato gravissimo. Ci imposero di non far sapere il fatto per non incorrere in situazione traumatica, il Sig.Ventura chiese al Cacciamani il rendimento e chi c’ era al turno successivo sulla stessa macchina e i vari rendimenti fra i due, avuta la risposta il Direttore mi disse:< domani sistemiamo la tua retribuzione. La mattina successiva mi fece chiamare in direzione e dopo varie domande la mia paga oraria passò da 0’55 lire 140 ora e la differenza fra gli stipendi mi fu data con la prossima busta paga. Al Maglio venni considerato per diversi lavori svolti, non da tornitore, un piccolo tecnico. Nel reparto avevo un amico che era stato il primo operaio del Maglio, Giovani Lori tecnico di fama locale con il quale parlavamo di cose tecniche ed io, con la scuola ricevuta da Toni rispondevo come era giusto che facessi e Lori capì quanto valevo, ed allora la nostra amicizia venne rafforzata. Lori era un vecchio comunista, saputo che avevo un padre Anarchico non tardò a capire che potevo diventare un comunista e poco dopo aderii al Partito di Gramsci . Ero il più giovane Comunista del partito e in quei tempi, il partito era fuori Legge e mi dovetti adeguare alle stupidaggini che il fascismo obbligava ai giovani. Al Maglio costruivamo anche Bombe di profondità antisom e nei reparti vigilavano un plotone di marinai in divisa, ma noi operai il 3 maggio 1943 per direttive segrete scioperammo; fu un momento di caos perché quando riprendemmo il lavoro non cerano più i marinai a controllare ma c’ èra la milizia fascista che noi spesso osteggiavamo in quanto i militi erano anziani. Malgrado i controlli serrati le bombe non furono mai consegnate, non ho mai capito il perché, forse saldate con elettrodi non adatti come asseriva il capo dei saldatori del Maglio, certo Latini di Cerreto. L’esterno delle bombe erano :un cilindro in lamiera saldata elettricamente tornite in due cerchi poi messe nel cortile al sole e la pioggia, una volta riprese in mano per il collaudo e immerse in acqua perdevano, perciò non adatte all’uopo, tanto che dopo la guerra 2000 carcasse furono vendute come rottame. Mentre ero occupato come tornitore sentivo tanto vociare perché in una attrezzatura per la marina militare mancava una guarnizione, dissi al capo che io poteva farla, non mi presero in considerazione ma di nascosto con la complicità di Lori la feci la guarnizione, mi aveva insegnato Giovanni Toni che di quei lavori era abilissimo perché a Sassoferrato si faceva quasi tutto a mano; quando Lori fece vedere la guarnizione che montarono subito ed il camion militare partì senza ritardo, il direttore mi chiamò e per premio mi tolse dal reparto torni e mi mise a disegnare i particolari non reperibili, la scuola fattami da G. Toni mi servì per sempre nella vita di Tecnico. Il 20 giugno 1943 mi chiamarono alle armi, non avevo ancora compiuto 19 anni. Alla stazione di Sassoferrato eravamo in molti a partire ed i pianti erano tanti che le lacrime delle madri riempivamo i fiumi. Io mi dovetti presentare al distretto militare di Ancona che mi fece salire su un vagone merci di un treno che andava a Nord, scesi a Bologna. Da quel giorno cominciò l’avventura che durò fino la fine della guerra. Alla stazione di Bologna arrivammo la notte e ci accantonarono in un piazzale scoperto con i Carabinieri di guardia, ci allungammo sulla terra nuda e chi poteva dormiva; con me che già dormiva cera Fulvio Panetti dello stesso paese; appena giorno arrivarono dei gruppi di militari delle varie armi che dovevano condurci ognuno al proprio reggimento. A me mi condussero alla caserma del 10° reggimento Dragoni ( Vittorio Emanuele 2° di Savoia) dove giungemmo alle ore 8. Arrivati ci condussero al 1° fabbricato della immensa caserma, ci fecero depositare le valigette al deposito, ci diedero l’ordine di non uscire e aspettare l’ora del rancio alle 11’30. Alle 11’45 in cielo comparve una miriade di bombardieri americani che cominciarono a bombardare Bologna e diverse bombe caddero sulla nostra caserma ed una bomba cadde proprio vicino dove eravamo noi, che, appena giunti perdemmo tutto, le valigette con indumenti e soldi che avevamo lasciato. Io ed altri ci buttammo dentro un cratere di una bomba esplosa pochi attimi prima ma la terra scottava, fortunatamente in fondo alla buca uscì l’acqua, forse aveva rotto qualche tubazione del’acqua così mezzi bagnati non subimmo conseguenze ma, una seconda bomba non esplose e finì con tanto spavento per noi che eravamo vicini a quello che sembrava un Inferno. Dopo finita l’allarme arrivarono gli ufficiali ai quali raccontammo che era stato colpito il deposito con le nostre valigette, non avevamo più niente da metterci in dosso; decisero di andare al magazzino de 2°fabbricato per darci la divisa, i pantaloni erano della divisa della cavalleria francese presi nelle caserme francesi, mentre le giacche, camicia ecc. erano italiane, meno le scarpe che erano francesi, e facevano pena ed erano di numero 45. Quando il comandate del nostro Reggimento, uomo degno di comandare un simile reggimento, ci vide così vestiti si arrabbiò con l’ufficiale che comandò quel vestimento, così ci vestirono da Dragoni in piena regola. Subito ci fecero montare la guardia con la lancia e ricordo, mi pareva di essere importate ma non avevo più una lira causa del bombardamento, ma con me nella stessa caserma c’era un mio lontano cugino, maresciallo che mi prestò 5 lire,(molto per quel tempo) così con 5 lire in tasca e la lancia in mano mi sentivo ricco(ero giovincello non avevo ancora 19 anni). Dopo quel bombardamento ci radunarono in piazza d’Armi e ci comunicarono che dovevamo lasciare la caserma di Bologna ed a piedi dovevamo raggiungere Casalecchio di Reno che era a 20 kilometri da Bologna meno soggetta a bombardamenti. Come dicevo sono nato il 10 luglio il giorno che i fascisti uccisero l’ON Matteottti e il giorno che gli Anglo americani sbarcarono in Sicilia, con l’aiuto della Mafia, per cui erano giorni difficili per l’Italia e ricordai giorni infausti che precedettero l’8 settembre quando il Re , la Corte, lo Stato Maggiore dell’Esercito abbandonarono gli italiani in mano ai tedeschi; voglio sottolineare che il Re e la casa Savoia tradirono anche il Senato dove il Re fu chiamato e dove negò di aver chiesto la pace agli Anglo Americani per cui i Savoia sono traditori. Ricordo che i giorni prima del trasferimento a Casalecchio vedevamo che dalla polveriera asportavano munizioni, non sapevamo il perché ma lo sapemmo l’8 settembre quando volevamo rifornirci di materiale per contrastare la prepotenza dei tedeschi, trovammo la polveriera vuota. A Casalecchio di Reno eravamo in una Caserma chiamata La Canonica, la mattina dell’8 settembre fui comandato con un camion e recarmi a Caseralta e ritirare il pane ed altri generi alimentari, al ritorno erano le 18 circa quando sentimmo sparare , accellerai per tornare, appena rientrato i soldati erano in festa, sparavano per allegria dicevano che la guerra era finita. Consegnai il camion carico ai magazzinieri, ed io con il mio amico Marcello Gorgeri ci incamminammo per andare al fiume a fare un bagno, dietro la caserma del 3° carristi incontrammo un borghese che ci domando:< dove andate ancora in divisa>< io risposi a fare un bagno.>Lui mi disse: si risposi io si ancora io. Sentite disse il borghese:< Non è finita la guerra ma è un armistizio e con tutti i tedeschi in Italia sarà un bel casino perciò fate come i vostri superiori andate a casa ma in borghese come sto facendo io.>. Io e Marcello non avevamo gli abiti borghesi per cui ritornammo in Caserma dove non trovammo nessun ufficiale ma soltanto qualche graduato di truppa, i quali ci fecero mettere alle finestre con le armi in dotazione. La mattina del giorno seguente 9 settembre si presentò soltanto un giovane Sottotenente che portava soltanto un piccola pistola il quale disse ai graduati di truppa di farci vestire con il giaccone di pelle e con le borse e le armi in dotazione per trasferirci nella caserma del 3° carristi più adatta alla difesa. Come giungemmo in quella caserma ormai vuota di uomini ma non di mezzi. Il Tenente fece sistemare delle sentinelle nei punti strategici; verso le 9’30 giunse un giovane ufficiale dei paracadutisti in tuta blu ed un mitra Beretta, chiamò il nostro unico ufficiale al quale disse che la caserma doveva arrendersi ai tedeschi, il nostro ufficiale disse di attendere ordini dal Comandante che stava arrivando, e non da un pari grado, mentre il nostro ufficiale finiva di parlare il paracadutista gli scaricava il mitra uccidendolo. Quando le nostre sentinelle videro cadere il nostro ufficiale spararono insieme sul paracadutista che cadde morto. Ci radunammo in cerchio e decidemmo di salvarsi come meglio credevamo, la maggioranza dei soldati scapparono lungo l’argine del Reno in pochi decidemmo di salire sul Colle di San Luca, poi ogni uno prendemmo la direzione della propria casa. Io un commilitone di Lecce ed uno di Terni partimmo insieme verso Ancona senza mai avvicinarsi alle strade di grande traffico; lasciammo le divise in una famiglia che ci diede abiti borghesi, ci guardammo e scoppiammo dal ridere vedendoci vestiti da straccioni, ma almeno quei abiti ci salvarono la pelle. La prima notte dormimmo sotto un grosso cespuglio, al risveglio avevamo i piedi feriti perché le scarpe militari non erano adatte per le lunghe camminate. Proseguimmo fino che, finalmente, vedemmo una casa in lontananza dove ci dirigemmo, in quella casa di contadini ci accolse una donna la quale ci diede dell’aceto per lavarci i piedi e delle fasce da neonato, dei figli ormai grandi, ci insegnò come fasciare i piedi, ci fece mangiare in abbondanza così ripartimmo sazi e contenti di essere ancora vivi. Noi tre soldati di cavalleria sempre insieme verso sera giungemmo in piccolo agglomerato di case dove gli abitanti ci dissero che avanti a noi erano passati molti ma dovevamo stare attenti ai rumori meccanici perché i tedeschi giravano per quei siti con motocarrozzette con la mitragliatrice e sparava sui cespugli. Noi tre amici riprendemmo a camminare sempre con le orecchie tese per sentire rumori anche lontani, camminando quel soldato di Terni disse che sotto un cespuglio vedeva un morto, ci fermammo, era bocconi ma ancora caldo, era morto da poco, noi lo controllammo era un finanziere che sotto la camicia aveva una foto della moglie con un bimbo in braccio e una bimba che teneva per mano, era senza documenti. Lo coprimmo meglio con le frasche e riprendemmo la strada di casa dopo che il soldato di Terni abbia detto le preghiere, essendo stato Chierichetto da giovane. La notte dormimmo poco pensando al finanziere, ma era la guerra; la mattina all’alba ci rimettemmo in cammino, traversammo il fiume Reno, quasi asciutto, dopo qualche kilometro ci fermammo fuori di una casa di campagna sfiniti dalla fame. Alle 7 si apri la porta e uscì una signora, lì, sfollata da Castel San Pietro che ci chiese se avevamo avuto noie con i tedeschi, se avevamo fame e di che reggimento eravamo, saputo quanto che ci aveva chiesto ci diede tre tazze di latte con pane fresco, ci disse che eravamo vicinissimi ad una stazione ferroviaria della linea Bologna Ancona. Appena finito il mangiare ci recammo alla stazione ferroviaria di Castel San Pietro che trovammo vuota, ma sotto la cantina del bar era pieno di soldati di tutti corpi che il barista togliendo la pedana apriva una botola e faceva scendere chiunque chiedeva aiuto come facemmo noi tre. Dopo circa trenta minuti arrivò il treno per Ancona pieno di soldati, nelle varie divise, così con gli aiuti di chi era già sul treno entrammo anche noi tre di Cavalleria, molti soldati erano a cavalcioni sui supporti dei respingenti e spesso qualcuno cadeva sotto il treno e finiva la vita sulla linea ferroviaria. Dopo tante avventure che è meglio non ricordare giungemmo a Falconara dove ancora era calma assoluta, soltanto dei Carabinieri al servizio dei tedeschi arrestavano i soldati in divisa che, benché cercavano di spiegare quello che succedeva in Italia del Nord venivano portati via con un camion. Io ed il mio amico di Terni scendemmo dal treno mentre il terzo che doveva raggiungere Foggia proseguì. Avevo fame, allora con le cinque lire che avevo avuto da mio cugino entrai nel bar della stazione dove trovai molti ufficiali che erano a cena ma il barista quando vide la moneta da cinque lire d’argento chiamò l’ufficiale del comando tappa dicendo che non potevo avere quella somma; l’ufficiale mi condusse nel comando, io gli dissi che ero un soldato di Cavalleria e gli raccontai quanto stava succedendo al Nord, lui entrò nel bar e raccontò agli ufficiali che stavano cenando ciò che io gli avevo detto e ciò che aveva saputo da una telefonata fatta da lui al suo collega di Bologna, tutti gli ufficiali se ne andarono, mi fece restituire le cinque lire con tante scuse, e l’ufficiale dell’ufficio tappa si mise in borghese ad anche lui come noi aspettò il treno per Roma. Come arrivò il treno per Roma molti soldati furono arrestati dai carabinieri, io quello di Terni e l’ufficiale del comando tappa riuscimmo a salire sull’ultimo vagone, con l’aiuto dei ferrovieri, giunto a Fabriano scesi e mi sdraiai per terra, ero sfinito, mentre il soldato di Terni se ne andava e mi salutava dal finestrino. Ora, fra poco avrei visto Sassoferrato, ci furono dei momenti che pensavo di non averlo più rivisto, ma la fortuna mi assistette. Scesi dal treno e mi incamminai verso casa, quando giunsi ad una distanza potei vedere casa mia, vidi mia madre affacciata insieme a mia sorella, quando mi riconobbero scesero per strada, mamma piangendo, mi abbracciò. In quel momento passò un drappello di bersaglieri di stazza a Sassoferrato che ancora erano ignari di quanto succedeva in Italia del Nord. Il Sottotenente che comandava il drappello vedendo, il pianto di mia madre e sentendo ciò che raccontavo volle sapere delle notizie certe anche perché lui non aveva più notizie dalla caserma da cui era partito; L’ufficiale mi chiese che se non avrebbe avute notizie dal comando avrebbe sciolto il giuramento al Re avrebbe fatto ciò che stava facendo i soldati italiani; mi chiese dove avrebbe potuto nascondere le armi e gli risposi che l’unico posto era di interrarle all’interno della Rocca, e così fecero perché lo seppi 50 anni dopo quando restaurarono la rocca. La mattina del 12 settembre 1943 ci furono dei manifesti che dicevano, a firma di Almirante, che tutti i soldati che erano tornati dovevano presentarsi ai Carabinieri per essere inviati ai Distretti di appartenenza altrimenti una volta arrestati dopo il 15 settembre sarebbero stati fucilati per diserzione, la Mattina dopo, io Sante Radicioni ed Oddo Maiolatesi caricammo gli zaini con vestiario e viveri ed a piedi ci spingemmo verso Montelago. Da quel giorno cominciò per me la Resistenza al Nazifascismo. Tutta la sofferenza, i caduti la fame del popolo, va addebitata Al Re alla Corte, allo Stato Maggiore dell’esercito, che per vigliaccheria scapparono di notte come ladri per salvare la loro pelle. Chi potrà leggere queste pagine ricordi che fu la vigliaccheria dei Savoia a causare i massacri fatti dai tedeschi e dai fascisti. Giungemmo a Montelago il giorno 13 alle ore dieci, ci sistemammo nella capanna della famiglia di Aldo Antonelli da dove potevamo vedere l’unica strada che giunge nel paese, per quel motivo avevamo scelto Momtelgo anche per il motivo che è circondato da fitti boschi dove ci si nasconde con sicurezza. La famiglia che ci aveva ospitato nella capanna ci disse che ci lasciavano adoperare la capanna a patto che non avessimo fumato ,erano preoccupati che essendo piena di paglia facile da incendiarsi, e noi dormendo non saremmo potuti uscire.. La sera del 14 verso le ore 18 vedemmo un giovane, che non conoscevamo, bussare alla porta della Canonica; nessuno rispose. Noi tre di Sassoferrato ci avvicinammo e chiedemmo al giovane chi cercava, e lui ci rispose di essere il nipote del Parroco Don Pietro Sadori, noi gli dicemmo che era partito la mattina e lo invitammo con noi. Il giovane si chiamava Unico Giambartolomei ed era figlio di padre sassoferratese, che era un allievo ufficiale e che si trovava nelle nostre condizioni per cui Montelago era un luogo ideale per sfuggire alla cattura dei fascisti, aspettava un suo collega di Ancona per l’indomani. Non sapendo dove andare accettò la nostra compagnia. La sera dopo aver chiacchierato un poco ci addormentammo. La mattina al risveglio trovammo Montelago popolato di giovani sassoferratesi che anche loro come noi disertavano la chiamata alle armi dei fascisti. C’erano: Antonio e Nazzareno Ambrosi, Aldo e Filino Barbaresi, Corrado Boldrini, Agostino Maiolatesi, Gino Caldarigi, Ninì Urbani, Ciro Tassi, Rosello Rossi, Memmo Sadori, Angelo Castellucci, Gigi Diotallevi, Manlio Ippoliti,e tanti altri sassoferratesi di cui non ricordo i nominativi, in oltre c’erano tre giovani di Ancona,uno si chiaamava Bibì uno Alberto ed uno che ci disse di chiamarlo Fabrizio Vennarucci , i cognomi in montagna non interessavano, si sistemarono dentro i fienili ma i montelaghesi cominciarono a preoccuparsi perché tutti fumavamo e c’era pericolo che qualche distrazione avrebbe potuto incendiare i fienili. Gli anziani di Montelago, si radunarono in Canonica ed insieme al Parroco decisero di sistemarci tutti in una casa in buone condizioni di proprietà di Silvio Antonelli. Quasi tutti ci sistemammo in quella casetta dove c’era anche un grande camino con la possibilità di appendere un caldaio che CorradoBoldrini ci cucinava delle minestre squisite specie la minestra con patate e broccoli; con la pasta che ci regalava la Ditta Silvio Giacani di Sassoferrato. Dopo qualche giorno arrivò il commilitone di Unico, si chiamava Giulio Bastianelli anche lui allievo ufficiale: I due sottoufficali organizzarono dei turni di guardia con vedette in località Aiale da dove si vedeva la strada che da ogni direzione porta a Montelago, con vedette così sistemate potevamo essere tranquilli di non avere sorprese. Nelle riunioni che facevamo ogni settimana discutevamo che se fossimo stati attaccati dai fascisti noi disertori avremmo avuto modi di salvarci ma la popolazione del paesino avrebbe pagato duramente per noi; questo ci preoccupava assai perciò decidemmo di costruirci un rifugio in mezzo ai boschi. Dopo aver cercato il luogo più impervio possibile, lo trovammo dove non c’erano strade ne sentieri ma vicino ad una sorgente, e lì con l’aiuto prezioso dei ragazzi di Montelago costruimmo una capiente capanna a prova di neve, la rifornimmo di tutto l’occorrente ma appena finimmo cominciò a nevicare; nevicò per tre giorni e tre notti, ne cadde circa un metro, con tanta neve non era possibile raggiungere Montelago per cui decidemmo di restare nella casetta di Silvio, ma ogni tre giorni andavamo a controllare la capanna che malgrado tanta neve dentro era asciutta come il giorno che l’avevamo costruita.* Ne frattempo che noi eravamo alla macchia a Sassoferrato si era compattato il COMITAO di LIBERAZIONE NAZIONALE (C.L.N.) che doveva coordinare tutti i gruppi dei giovani antifascisti alla macchia, con noi giovani facevano parte anche vecchi antifascisti ricercati e che parte facevano parte del CLN. Questi del Comitato di Liberazione Nazionale dovevano rifornire di armi e vitto le varie bande di giovani alla macchia mentre il vestiario era fornito dalle famiglie. Per l’invio del materiale veniva adoperato un carro trainato da buoi e guidato dal proprietario un certo Mazzanti. Mia madre faceva da tramite fra il CLN e il contadino accompagnando il carro fino a destinazione. La mattina del 2 marzo 1944 mamma con il carro carico di materiale e Mazzanti partirono da Sassoferrato diretti a Montelago che erano le 6, fatti due kilometri di strada iniziò a nevicare ma mia madre sapeva chi i ragazzi rimanevano senza viveri spronò il contadino che anche se claudicante proseguirono, ma giunti nel paesino di Valdolmo la neve era cresciuta tanto che dovettero desistere perché la neve arrivava sotto la pancia dei buoi che non potevano più alzare le zampe. Giulio e Unico, i due sottoufficiali, avuta la notizia da una certa Emma la zoppa che veniva da Valdolmo, decisero di prender tre asini dei più grandi per recarsi a ritirare il materiale che il carro aveva portato. Si decisero che con gli asini sarebbero andati i due allievi ufficiali con la mia compagnia perché conoscevo bene strada anche se innevata, non si vedeva più il tracciato perciò ogni cento metri gli asini affondavano, e noi tre accompagnatori eravamo costretti a liberarli. Giunti a Valdolmo caricammo sui basti degli asini, e ritornammo al campo, sudati fino al midollo tanto che Giulio Bastianelli si ammalò di pleurite ma le cure ,in mezzo ai boschi erano limitate così dovemmo, tra tante traversie portarlo ad Ancona dove furono costretti ad eliminargli un polmone, cosi per l’allievo ufficiale nostro amico fraterno finì la guerra ai fascisti. Con noi disertori c’erano anche due soldati dell’esercito inglese fuggiti dai campi di concentramento dopo l’8 settembre 1943, uno era alto e grosso lo chiamavamo Peppone e l’altro era magro e lo chiamavamo Peppino. Peppone parlava un italiano scontato perché aveva fatto la guardia in un campo di concentramento in Egitto dove erano rinchiusi gli italiani perciò era il nostro interprete verso gli inglesi che passavano nella nostra zona. Una mattina all’alba si presentarono ad un nostro posto di blocco tre che dicevano di essere inglesi, chiamammo subito Peppone che li interrogò, poi ci riferì che uno parlava inglese correttamente, uno, a sentire loro era muto per causa di guerra ed un altro parlava un inglese parlato nelle vicinanze di Londra. La sera stessa che giunsero i tre inglesi Peppino mi fece dire da Peppone che lui voleva andare a Casequattro dove una volta era stato insieme me, quinti sarebbe contento di essere trasferito in quel sito; Casequattro era un paesino abbarbicato su delle rocce non raggiungibile se non con asini in quanto non c’èra strada e lui si sarebbe sentito più sicuro, anche perché con noi a Montelago erano giunti altri tre che ci avrebbe aiutato. Lo stesso giorno che l’inglese partì per la nuova destinazione a Montelago si trovava anche mia sorella Raimonda (che noi chiamavamo Monda) venuta a trovarmi per portarmi un cambio di biancheria, cosa che faceva ogni settimana, anche lei era presente quando Peppone i interrogava i tre inglesi. Dopo tre giorni di permanenza con noi i tre inglesi nuovi arrivati se la svignarono alla chetichella, ma Neno Ambrosi se ne accorse, mi chiamò avvertendomi della fuga senza motivo dei nuovi arrivati; io corsi a prendere il fucile americano che tenevo nascosto nella mangiatoia dei buoi della famiglia di Amilcare Pretucci, corsi per l’unica strada ma ad un certo momento vidi i tre che stavano parlando con delle pastorelle di Regedano. Noi sapevamo che i tre non parlavano italiano perciò non capivo cosa potesse volere dalle tre bambine, quando raggiunsi le pastorelle gli inglesi avevano voltato su una curva della strada, allora domandai alle pastorelle cosa volevano da loro gli inglesi, mi risposero che gli domandarono dove potevano trovare, sia a Pergola o a Fabriano un comando fascista: non gli chiesi altro perché a noi gli inglesi ci avevano detto che non parlavano italiano: allora erano delle spie. Saputo ciò che avevano chiesto e che erano spie mi misi a correre e li raggiunsi vicino Valdolmo, puntai loro il fucile e loro alzarono le mani mentre passava Ciriciola con un carretto e somaro, era un contadino di Valdolmo che conoscevo molto bene, sul carretto vidi una corda che mi feci dare per legare i tre ad una pianta dicendo poi a Ciriciola , al quale diedi il fucile per tenerli a bada fin che non sarei tornato . Andai a parlare con il Capitano Pietro che comandava il gruppo partigiani di Valdolmo. Gli raccontai di come si erano comportati i tre inglesi. Il capitano mi disse:. (Fu un grosso errore, lo scopriremo dopo.)- Come ho scritto noi disertori non eravamo armati per poterci difendere , avevamo due moschetti austriaci della 1° guerra mondiale donatici dal signor Tito Castellucci di Radicosa, più il fucile americano che avevo io, tre pistole Beretta che ci aveva consegnato il nostro comandante Quadrio Cianca, in oltre avevamo delle bombe a mano Balilla che erano tutto rumore e poco effetto, ma cosi anche male armati, una sera di marzo 1944 il comandante Cianca chiamò da parte Antonio Ambrosi, Fernando Giovannini e me, ci disse che saremmo andati a fare una passeggiata; ci incamminammo lungo la strada per Sassoferrato, mentre camminavamo ci disse che saremmo andati a fare un’azione di disturbo senza pericolo. La sera, circa le 21 ci fermammo sotto la casa del contadino Villani ed incontrammo un barroccio condotto dal Mazzanti che già io conoscevo, e ci avviammo per la strada per Pergola, io e Antonio salimmo sul barroccio, Quadrio e Fernando ci seguivano a piedi, giunti vicino la stazione d Monterosso ci fermammo. Quadrio ed Antonio girarono intorno la stazione, ma il capostazione sentendo dei passi si affacciò dalla finestra e vedendo gente con fucili disse che era meglio parlare prima di commettere azioni che per lui sarebbero state fatali. Dopo aver parlato con il comandante proseguimmo verso il Morello, giunti prima della galleria i comandante disse a Fernando di legare una robusta fune alla base di un palo del telefono e dopo l’alta estremità al giogo dei buoi, poi il contadino fece camminare i buoi in modo che il palo cadesse, così anche i fili caddero tranciandosi ; dopo si fece lo stesso lavoro ad un secondo palo che cadde tranciando altri fili. Il comandante disse al Mazzanti di tornare a casa facendogli capire l’importanza del lavoro fatto. Noi tre ragazzi e il comandante ci recammo a piedi, nella notte, arrivammo a Valdolmo che era quasi all’alba. Lungo la strada il comandante ci disse che dovevamo restare entro la villa del Capitano Loretelli senza uscire, nessuno doveva vederci: così facemmo. La mattina seguente prima di partire per Montelago il Capitano Pietro ci disse di non raccontare nulla di ciò che avevamo fatto ai nostri amici perché i tedeschi, ancora lontani, avevano sempre spie, e quello che avevamo fatto era un fatto grave. I nostri amici, quando ci videro ci tempestarono di domande ma dalla nostra bocca usci tante risposte ma nessuna vera. Nell’inverno 1943—1944 a Sassoferrato era stato istituito i CLN con comandante militare Diego Boldrini, Capitano della riserva decorato con medaglia d’argento nella guerra 1915—1918 .Il Capitano Boldrini ebbe il comando di un battaglione che comprendeva tutte le bande da Jesi a Fabriano e prese il nome” Battaglione Ferruccio.” La banda più vicina era quella comandata da Gigi Cardona che in uno scontro con un camion di tedeschi alla periferia di Sassoferrato perse due uomini, Orsi Alessandro morto ed un altro fatto prigioniero perché ferito. Un giorno, del quale non ricordo la data, io con mia sorella scendevamo da Montelago quando sentimmo un rumore di automezzi nelle vicinanze , ci nascondemmo in mezzo ad un campo di granoturco, ci sdraiammo per vedere chi fosse, di lì a poco passarono due camion di tedeschi delle SS; sul primo camion sedeva vicino all’autista uno dei falsi inglesi che fuggirono da Montelago, mia sorella lo riconobbe senza indugio, era il più anziano dei tre. I camion si fermarono a Valdolmo, l’ufficiale , la falsa spia, volle tutta la popolazione radunata, e chiese di far presentare il capitano Morbidelli, nome confuso con Loretelli, la popolazione rispose che non era di Valdolmo ma quello che cercava era partito da tempo. Il tedesco minacciò la popolazione che se non avessero detto la verità sarebbero ritornati. I tedeschi proseguirono per Montelago, cercavano due inglesi quello grosso e quello piccolo, la ragazza Monda suo fratello, gli altri partigiani e specie Neno quello alto. A Montelago la risposta fu questa: Si c’erano qualche giorno fa ma sono andati da un’altra parte dal giorno che i tre inglesi se ne andarono, e loro non dicono mai dove vanno perché non si fidano; erano le informazioni che noi partigiani avevamo dato al Parroco per far preparare i montelaghesi di ciò che dovevano dire, per non far fare rappresaglie. I tedeschi non si fidarono, allora prese una ragazza la mise aventi ad una mitragliatrice e gli disse: . La ragazza senza esitare gli rispose che non lo sapeva. Il tedesco “Spia” vista la sicurezza della giovane fece risalire gli uomini sui camion e ripresero la via del ritorno. Il giorno dopo aver sentito ciò che era accaduto a Valdolmo e Montelago tornai a casa dove seppi che il paese era tappezzato di manifesti a firma di Mussolini che invitava anche i partigiani a presentarsi ai distretti e sarebbe stato tutto dimenticato, molti dei miei amici si presentarono a Jesi centro di raccolta: io ripresi la strada per Montelago, presi il fucile,lo zaino che Annunziata mi custudiva con amore, presi la strada per l’Abbazia d Sidria, la prima Abbazia dove S.Romualdo soggiornò più a lungo, non c’era ne strade ne sentieri solo passaggi per cinghiali. Man mano che mi avvicinavo alla Abbazia, dove vicino scorre un ruscello di acqua limpida vidi tre uomini che si stavano lavando a petto nudo, mi avvicinai ancora ai tre per vedere chi fossero, perché non erano campagnoli: uno era alto un metro e 90 sui 40 anni e i due giovani della mia età e statura. Mi avvicinai loro con il fucile puntato e dopo aver posato lo zaino per essere più sciolto, gli diedi l’alto là, i tre alzarono le mani poi impallidirono e muovendosi sembravano marionette. Capii subito che erano nella mi stessa mia situazione, ci presentammo: Il più alto era un capitano inglese che era stato sbarcato nelle valli di Comacchio da un sommergibile inglese, i ragazzi Mario e Tonino erano due partigiani comandati come scorta al capitano inglese che portava con se una potente radio trasmittente per comunicare con il comando di Mongomeri. Il Capitano si chiamava”George Wiliam Davjnson. Vista la situazione e l’importanza di avere una radio parlai con i tre e gli dissi che il posto dove ora ci troviamo non è più sicuro e gli indicai che sarebbe meglio trasferirci sul bosco rotondo de monte CATRIA, il motivo della mia richiesta era dettata dall’aumentato traffico di mezzi nazifascisti sulla strada che passa per l’Isola Fossara poi va aScheggia per Roma. Il capitano inglese tirò fuori le carte topografiche, aggiornatissime, e decise che era giusto quello che avevo proposto, così la mattina all’Alba cominciammo a salire verso il bosco Rotondo dove trovammo una capanna costruita dal pastore romano che era stato in quel luogo durante la pastorizia. Vicino la capanna ce una sorgente chiamata(la Vernosa), La notte dormimmo dentro quella capanna costruita dal pastore durante la transumanza con circa 1000 pecore e lì ci fermammo. La capanna era solida ed ancora la temperatura era discreta passammo bene il tempo. Dopo due mesi il comando inglese diede l’ordine al capitano di cambiare zona così partì con i partigiani della scorta. Io ritornai a Montelago dove trovai soltanto Oddo Maiolatesi, Claudio Branchini e Nino chiamato il Bolognese perché sfollato da Bologna. La sera ci mettemmo insieme ai ragazzi del Paesino a fare due chiacchiere, poi verso le 23 ci ritirammo. La mattina appresso fui svegliato da raffiche di mitragliatrice sparate in lontananza, mi alzai alla svelta , scesi e trovai Oddo e gli amici del paesino, vicino il palazzetto dell’ex Maresciallo Antonelli. Guardammo nella direzione della strada Sassoferrato-Scheggia, all’altezza di passo della Pantana, io che avevo il binocolo vidi due camion di camicie nere che mitragliavano in mezzo boschi, ai margini del paese. Oddo, il più anziano che aveva combattuto anche in Marmarica ci disse:. Oddo, il veterano, mi rispose con un filo di voce disse< non muovete nemmeno un muscolo perché una mitragliatrice piazzata ci centrerebbe senza battere ciglio. Era il 5 maggio 1944 quando i fascisti con i ragazzi rastrellati presero, a piedi, la via del monte per raggiungere Scheggia fecero poi ritornare i camion scarichi per la strada. Unico Giambartolomei durante il rastrellamento si era nascosto in canonica, passato il pericolo tornammo a casa e sapemmo che i nostri compagni si erano presentati dietro il manifesto del Duce, scapparono tutti ed erano già in paese. Ai primi di giugno del 1944 gli alleati cominciarono a trasmettere, da Londra, i primi messaggi cifrati per i comandi partigiani, i quali dovevano preparare gli uomini per la guerra insidiosa che dovevano combattere. Il nostro gruppo doveva essere radunato in mezzo ai boschi del monte Foria appendice del monte Strega, preparare il tutto per accampare uomini e mezzi, era ora di passare ad una azione attiva perché fra breve sarebbero cominciati i lanci di paracadute con armi munizioni , vestiario e viveri. Il Comando decise di preparare il campo di lancio per raccogliere i materiali, il luogo venne scelto, era“il Lago,”ed i fuochi che dovevano essere accesi dovevano essere 4 a Y; questo luogo doveva essere guardato a vista e difeso quando il materiale arrivava . Una volta il materiale giunto a terra veniva controllato ed inviato ai vari gruppi altrove dislocati, al trasporto erano impiegate donne e frati, Diana Boldrini, Antonia Bianchi ed altre, ed i frati, Pare Angelo Mazzini frate Mario e frate Angelino ed molte occasioni andava Vezio Digirolamo ed il vecchio Giovanni Ballanti, partigiani. Una notte di lancio tirò un forte vento ed i paracadute con il materiale scavalcò la croce della Strega e si posò sul monte di Casitiglioni, la notte seguente gli uomini di quel paese con dei carri portarono il materiale a Montelago. Il materiale era in vista ed era pericoloso perciò gli uomini di Montelago lo dovettero portare, brontolando fin sulle Prata della Strega, io facevo ero di scorta e sentendo quel brontolio feci un atto sconsiderato ,diedi uno schiaffo ad uno che non portava peso mentre faceva vedere che era il più carico. Giunti sul campo delle Prata il comandante saputo dello schiaffo mi fece legare al palo per tre ore .Gli uomini dei vari gruppi erano comandati: il gruppo comando dal tenente Quadrio Cianca, dopo diversi giorni dal ten Armando. Il gruppo Valdolmo era comandato dal capitano Piero Loretelli, il gruppo Serra S. Quirico comandato da Peppe Roma. il gruppo Cardona comandato da lui stesso, il gruppo Cabernardi dall’antifascista Antonio Chiocchi, inoltre c’era una formazione di GAP che agiva dentro il paese, comandato Dal dott. Bruno Riboli cera anche il gruppetto degli addetti alle trasmissioni comandato dal capitano Alfonzo. Io facevo parte del gruppo comando, con molti compagni che erano a Mantelago dal settembre 1943, inoltre venimmo integrati da vecchi antifascisti come Mario Melchiorre, Ernesto Rossi, Settimmio Sadori, Alano Cesaretti, Giovanni Ballanti e giovani: Franco e Lelio Ragni Riziero e Giuseppe Costantini, Esperio Mengarelli, Guido Mattioli, Dario Gioacchini, Vezio Digirolamo, Carlo Tassi, Alberto Stella, Giancarlo Angelini, Daniele Salvioni e tanti altri che non ricordo ma col tempo li conobbi tutti. I comando del Battaglione che prese il nome di Ferruccio, secondo nome del Comandante era comandato da Ferruccio, aiutante di campo Quardio Cianca e da tutti i comandanti delle bande, Commissario politico, il comunista Renato Blasi- Le varie formazioni del III° Battaglione “Ferruccio”si distinsero con coraggio ed abnegazione. Nei scontri con il nemico persero la vita anche ragazzi, che sapevano che per raggiungere la Libertà si doveva sacrificare tutto. Il comandante Boldrini volle misurare le nostre capacità effettive così decise di interrompere la strada Nazionale Sassoferrato Scheggia facendo saltare il ponte sul Sentino, quello con il bivio di Perticano. L’azione ebbe inizio verso le 22; gli artificieri della banda Loretlli prepararono due fornelli, lavoravano fra il transito di un mezzo e l’atro delle colonne nemiche, caricarono poi i fornelli d’esplosivo, misero le micce rapide e si allontanarono. Molti partigiani del mio gruppo erano di scorta ai guastatori e aspettavano con ansia, però videro l‘avvicinarsi un rumoroso mezzo corazzato e diedero l’allarme, dalla curva spuntò un grosso cingolato che trainava un lunghissimo cannone. Gli artificieri incendiarono le micce, il boato fu terribile la polvere fu tanta, quando la polvere si diradò vedemmo i resti del ponte e vedemmo il mezzo meccanico in fondo al fiume. Il Comandante diede ordine di controllare se cera qualche ferito, e invece trovammo otto cadaveri che componemmo sul greto del fiume, io raccolsi un elmetto di un tedesco con i capelli rossi che dentro la cinghia aveva scritto il nome, si chiamava: Haz Majer Alois, ed era di Amburgo, dentro l’abitacolo Neno vide ornamenti Sacri che i tedeschi avevano trafugato, lasciammo tutto ed avvisammo il Parroco di Perticano, che avrebbe dato sepoltura ai morti.. La notte noi partigiani, prima di dormire ricordavamo i giorni della fanciullezza quando la sera prima della epifania trascinavamo per le strade selciate di Sassoferrato barattoli e altri oggetti(i tamburlani) per creare rumore in modo che i bambini sognassero la befana e i doni. Altri pensieri che facevamo erano quelli del 9 dicembre quando accendevamo i “fogaracci” per festeggiare il passaggio della Madonna di Loreto sopra Sassoferrato, la mattina quando ci svegliammo trovammo una cattiva notizia, era la mattina del 3 luglio 1944 quando giunsero a Montelago vari reparti di alpini tedeschi, il loro comandante mandò una donna del posto, certa Ida Antonelli a chiedere al comandante Ferruccio il permesso di transito per la mulattiera dei monti per raggiungere la via Adriatica, asseriva che i suoi soldati erano stanchi e volevano raggiungere una ferrovia senza dover combattere. Il comando si riunì d’urgenza e decise di non patteggiare con un nemico inaffidabile. A Montelago in una capanna noi partigiani tenevamo un macchina Fiat con dentro i proiettili del cannone distrutto sul ponte del Sentino, forse quei proiettili avevano fatto cambiare idea di un loro attacco. Non ci credemmo nessuno. Il nostro comando fece disporre gli uomini nei punti strategici per controllare le mosse del nemico che si stava preparando ad attaccare il nostro campo. Il comandante Ferruccio diede un ordine secco :perché non ci restava altra soluzione che ritirarsi. La nostra ritirata comportava comunque dei rischi perché era chiara, già dai preparativi, l’intenzione dei tedeschi era di impedire qualsiasi via di scampo ai partigiani, bloccando tutti i passi per scendere a valle. Stando così le cose qualsiasi decisione appariva azzardata in quanto non era possibile fidarsi del nemico, ma tantomeno era possibile affrontarli in combattimento. Sia dal Comandante che dal tenente Armando che era giunto nel frattempo al campo partì l’ordine di nascondere in un posto sicuro l’esplosivo, e caricati i muli e messi gli zaini in spalla alle 16 la colonna composta da una settantina di uomini 4 muli e 14 prigionieri, cominciò a muovere puntando su Casacce attraversando il monte Foria.—Questo monte ai lati è ricoperto da fitti boschi, mentre in cima vi sono degli immensi prati ameni. Giunti sulla cima, i partigiani, videro in cielo uno grosso stormo di fortezze volanti americane che, avvistata la colonna ordinarono a tre caccia dei tanti di scorta controllare, scesero in picchiata sulla nostra colonna con la manifesta intenzione di mitragliare. Solo la pronta decisione del sergente Alano Cesaretti fece scongiurare il peggio; questo gridò:< sventolate i fazzoletti rossi>, che portavamo al collo. Gli americani, avendoci riconosciuti, rallentarono la picchiata poi passarono a bassissima quota sopra la nostra colonna che salutava, poi fecero tre giri sopra di noi dondolando in saluto, poi passarono a bassa quota sopra la strada che la nostra colonna doveva traversare, così noi non fummo infastiditi. Giungemmo a Coldipeccio passando per un sentiero fra i boschi che erano le 19, il comando decise di passare la notte a Coldipeccio, quando arrivammo il paesetto era deserto, la gente avendo visto la nostra colonna nelle vicinanze si era chiusa in casa ma quando ci riconobbero scesero per la strada; non ci avevano riconosciuti prima pensavano che fossimo fascisti. Esseno tardi non si cucinò qualcosa di caldo per ciò ci dovemmo accontentare di quello che ci offrì la gente, poi stanchi ci gettammo sulla paglia delle capanne. La mattina al risveglio trovammo il Parroco che parlava con il nostro comandate, chiedeva che sarebbe stato meglio lasciare il paese per non far correre la popolazione a rappresaglie, in quanto i tedeschi ogni mattina si recava a Coldipeccio a raziare viveri. Il comandante disse al prete che saremmo partiti dopo aver mangiato un pranzo caldo. Veramente ne avevamo bisogno. Si decise di ritornare sul vecchio campo del Foria perché i tedeschi avevano lasciato Montelago. I preparativi per il ritorno furono presto fatti, ricaricammo i muli, i nostri zaini, e di nuovo in marcia. Il comandante Ferruccio stabilì l’ordine di attraversamento della strada nazionale sotto il paesino Casacce. La prima squadra che doveva passare era quella con le mitragliatrici, con i mitraglieri Fleris Ligi e Unico Giambartolomei che dovevano coprire uno a destra e uno a sinistra, e coprire il passaggio del resto dei partigiani, che a gruppi di dieci dovevano traversare la strada portando anche i muli, per ultimi dovevano passare i prigionieri con la scorta. Appena i mitraglieri furono in posizione passarono pochi partigiani con il comandante Ferruccio, si cominciò a sentire un forte rumore di automezzi che avanzava verso di noi. ll mitragliere Unico drizzo le orecchie e come si presentò il primo automezzo aprì i fuoco centrandolo in pieno, era una macchina tipo Fiat Balilla, che malgrado piena di buchi seguitò ad avanzare, ma sulla loro strada trovò ben piazzati Vezio e Carlo che la fermò scaricando i loro mitra sull’autista. La macchia era la prima di una colonna motorizzata , all’intero c’èra il comandante della colonna tedesca e l’l’autista. Il comandate tedesco era mortalmente ferito e fummo costretti a dargli il colpo di grazia, mentre i partigiani controllavano il comandante l’autista benché ferito si gettò nel sottostante fiume dove fu cercato, ma non fu trovato. Nella vettura tedesca furono trovati piante e documenti importanti che furono consegnati al comando Alleato che costrinse i tedeschi ad una rapida ritirata della linea più a nord. Il nostro comandate ordinò che con celerità tutti gli abitanti di Csacce di caricare i loro asini e muli con tutto ciò che più era indispensabile e ci seguissero senza commentare. La colonna tedesca che seguiva la macchina udendo le raffiche delle mitragliatrici delle bombe a mano e delle raffiche dei Sten sapendo che erano in mezzo ai monti non avanzò, ansi ripiegò per la Scheggia per poi proseguire per Fano e per la strada Adriatica. Come giungemmo sul vecchio campo de Foria , il comandante chiamò Fideo Vitaletti e lo incaricò di sistemare la gente delle Casacce nei paesetti alle falde del monte Strega perché prevedeva una rappresaglia nel paese : e così avvenne, i tedeschi diedero fuoco al paese , ma per la decisione presa dal comandante non ci furono vittime. Mentre il gruppo della Strega si scontrava con la colonna motorizzata a Casacce, nel vicino paesetto del Morello i tedeschi uccidevano due partigiani, Renato ed Egidio . I tedeschi tenevano prigionieri i due giovani in una cantina della casa dell’oste del Morello, il quale mi raccontò che i tedeschi che interrogavano a suon di botte i due partigiani perché volevano sapere il luogo dove erano accampati i partigiani e il nome del comandante. I giovani non risposero. Mi raccontò poi l’oste, che prima di portarli al supplizio volle che tutti gli abitanti del Morello assistessero alla fucilazione poi i partigiani morti furono lasciati nell’albero per due giorni per dimostrare come monito per la gente, di come i tedeschi trattano i partigiani fatti prigionieri. Dopo i fatti del Morello il Comando di battaglione decise di spostare il campo base del Foria nel sottobosco delle Prata del monte Strega, posto più difendibile. Dopo diversi giorni tornò il tenente Armando con i prigionieri e la scorta, che dopo i fatti delle Casacce si erano riparati nei ruderi del Eremo di S. Gerolamo. Una sera il tenente ci radunò e, dopo averci fatto caricare alcuni zaini con l’esplosivo ci fece incamminare per l’Isola Fossara e Scheggia, per far saltare il ponte del Corno del Catria. Giungemmo sul posto che secondo le informazione doveva essere sguarnito di tedeschi; ma come ci avvicinammo al ponte fummo ricevuti da scariche di mitraglia, fu una vera fortuna che nessuno di noi rimase ferito. Al ritorno i nostri artificieri fecero saltare un pezzo di strada che non fu più in grado di essere percorribile. I tedeschi dopo quel fatto mise delle tabelle con scritto ACHTUNG PARTISANEN. Mentre i partigiani della Strega combatteva il Gruppo di Cardona era acquartierato a Vallina posto non difendibile e ciò preoccupava il comandante di battaglione. Una sera il comandante decise di inviare un messaggio a Cardona con l’ordine di spostare subito il campo ma il messaggio non giunse in tempo. Per un tradimento di un p. il gruppo fu attaccato da forze superiore di molte volte ed i partigiani si difesero da leoni ma morirono diversi uomini fra cui due miei amici, Narciso Romitelli e Giacomo Ciampicali. In quei giorni le truppe alleate dell’Ottava Armata erano ferme alla Bastia di Fabriano e facevano delle avanscoperta fino a Cave di Sassoferrato per sondare la resistenza nemica.. Il comando dei partigiani della Strega decise di dividere in due tronconi gli uomini, un gruppo fu fatto attraversare il fronte per raggiungere gli inglesi a Bastia e dare le coordinate all’artiglieria, che con pochi colpi distrusse gli osservatori tedeschi. I tedeschi decisero di ripiegare, lasciando però delle pattuglie in vari punti. Un secondo gruppo fu incaricato a rientrare a Sassoferrato per preparare la liberazione. In quel tempo una pattuglia di partigiani si scontrò con una pattuglia tedesca a Cave, frazione di Sassoferratoi, e nello scontro cadde Costantini Riziero che benché morente segnalò ai colleghi, Oddo ed Esperio di non avanzare. Il gruppo che scendeva per raggiungere Sassoferrato, sopra Venatura ebbe un incidente, l’armiere Guglielmo Stella nell’atto di smontare il mitra Sten del partigiano Lanfranco Ragni rimase ferito. Alberto Stella ed io ci mettemmo subito a cercare il materiale per la medicazione, nel paesino nessuno aveva materiale per medicazione, una donna ci disse che solo il Parroco ne aveva, ci recammo in Canonica e trovammo il prete sconvolto. La sera prima due tedeschi ubriachi stuprarono due ragazze e spararono su tutte le immagini sacre che erano in chiesa, dove avevano compiuto lo stupro. Dopo aver pregato il prete, ci recammo con lui, nella sua Chiesa a prendere i medicinali. Trovammo poi un infermiere sfollato da Roma, però residente a Brecce che medicò il partigiano, dopo la medicazione in nostro armiere non era in condizione di camminare, lo sistemammo in mezzo al fieno nella capanna della famiglia Mancinelli. Noi raggiungemmo Sassoferrato, secondo gli ordini ricevuti. La mattina seguente la ragazza figlia del Mancinelli si recò a prelevare il fieno e sentì un forte lamento, corse a chiamare il padre e insieme scoprirono il ferito che aveva una febbre altissima; come usa nella nostra terra portarono il ferito in casa, lo curarono con amorevolezza, rischiando molto, lo fecero guarire, noi lo rivedemmo dopo giorni, claudicante ma guarito. Il 29 luglio 1944 il comando Alleato decise di liberare Sassoferrato, però volle che in avan scoperta fossero i partigiani del Foria, che seguiti dagli inglesi dell’ottava armata entrarono in paese. I sassoferratesi quando videro dei suoi ragazzi avanti agli inglesi andarono in visibilio e coprirono le finestre con il ticolore magari fatto da tre coperte Bianco Rosso e Verde. Il comando del Battaglione subito ordinò a tutti i comandanti di dislocare gli uomini per un fronte che andava dal Monte Strega al fiume Sentino. I tedeschi tentarono per due volte di rioccupare Sassoferrato e punire la cittadinanza per i festeggiamenti fatti ai partigiani e agli alleati: La prima volta tentarono di passare rasenti la siepe che corre a fianco della strada Sassoferrato –Cabernardi. Ricordo che la notte era nera come la pece ma noi, appostati dentro il molino del Castello, al comando del sergente Alano Cesaretti li ricacciammo indietro. La seconda volta provarono passando dentro il vallo del fiume Sanguerone ma anche qui i partigiani li ricacciarono indietro. Dopo questi due tentativi desistettero e spostarono la loro linea del fronte a Pergola. I partigiani del Monte Strega erano organizzati militarmente e disciplinati perché avevano in consegna i prigionieri che i vari gruppi ci inviavano. Fra i vari prigionieri avevamo la famiglia Barrocci la cui figlia era la famosa Belva di Fabriano, che tanti lutti procurò nelle Marche. Il generale Alexsander inviò al comandante Ferruccio una lettera, encomiando per come i partigiani avevamo retto il fronte dalla Strega al Sentino . Quando il Governatore Alleato giunse a Sassoferrato fece issare la bandiera italiana al centro fra la bandiera inglese e quella americana. Il nostro Battaglione faceva parte della V° Brigata Garibaldi alle dipendenze del Comitato di Liberazione Alta Italia. Noi partigiani del gruppo Cacciatori del Foria, comandati dal tenente Armando, siamo ancora oggi orgogliosi di aver fatto parte di quel gruppo. Il lIII°Battaglione Ferruccio della V° Brigata Garibaldi il 15 Agosto 1944 fu smilitarizzato alcuni partigiani seguirono il reggimento inglese fino quando fu mandato in riposo a Roma e noi con loro. Il C.L.N. di Sassoferrato era formato da Pitro Camilli “presidente” Diego Boldrini “Ferruccio”comandante militare , Padre Angelo Mazzini, Natan Cianca, Quadrio Cianca, Gino Lunardi, Alessandro Papi ed altri. Il mio ringraziamento va a tutti i patrioti ai contadini e specie alle donne che rischiando la vita, ci nascosero e ci aiutarono durante il periodo clandestino.

Finita la guerra andai a lavorare con la ditta Giovanni Toni dove anni prima avevo imparato il mestiere. Il primo Lavoro che facemmo fu di togliere da sotto il ponte sul fiume Sentino, quel Cannone che durante la guerra noi partigiani avevamo fatto precipitare. Fu un lavoro durissimo perché il cannone era un 120 prolungato, pesantissimo e incastrato, oltre la canna recuperammo tutte le parti dell’affusto con cui facemmo poi con la direzione di Giovanni “Nanni”un tornio frontale che adoperammo per riparare un mulino del Cementificio. Ricordo che altro lavoro importante fu la riparazione di un volano che feci la sera e la notte di Carnevale, quella sera la mia fidanzata mi portò la cena e le frappe, per dolce. Nel 1950 mi sposai con Tina Neri una ragazza molto bella che conobbi ragazzina prima della Guerra, con cui ebbi una figlia nel 1951 alla quale misi il nome di Donatella; con Tina vissi anni felici specialmente a Roma dove mi trasferii nel 1953 per questioni di lavoro. Nel 1978 un male incurabile portò in cielo Tina, fu un dolore tremendo, per mesi la mia vita è stata cattiva ma continuò, perché avevo due figlie, Donatella ed Elisabetta, una bambina che presi in famiglia quando era piccolissima. A Roma lavoravo come tecnico alla Soc. Voxson e la mia vita di ex partigiano mi chiedeva di poter migliorare le condizioni di lavoro, divenni Sindacalista della” FIOM CGIL” dal 1965 fino al 1972. Allora si manifestava democraticamente per la conquista dei diritti in fabbrica e conquistare una legge che fu poi conquistata con sacrifici anche enormi. La famosa legge dei Diritti dei Lavoratori la118.. Essendo sempre un sindacalista ripresi la lotta per evitare la legge che dequalificava i lavoratori, volevano che fossero disponibili di variare il posto di lavoro a loro piacimento ed il 31 agosto 1978 la Legge capestro non passò. Entrai alla Voxson, come dissi, e in quella fabbrica insieme duemila compagni lottavamo per migliorare il lavoro e la vita nelle fabbriche ed in più occasioni mi scontrai con qualche componente delle B.R. Io nei volantini che lanciavano rispondevo durante le assemblee, volevano che io ex partigiano comunista non criticassi il loro modo lottare che era sbagliato non era democratico per cui un giorno un BR mi puntò un coltello alla gola, non ebbi paura ansi mi slacciai il colletto della camicia e dissi< dai ma te non sei un comunista ma un fascista, perché sappi che io sono iscritto al PCI quando tu non eri ancora nato perciò vergognati.> , Se ne andò, poi sapemmo che il capo abitava nella zona di Tor Sapienza. Potrei testimoniare centinaia di fatti successi durante la mia permanenza di lavoratore alla Voxson ma ci vorrebbe troppa carta ma ho una sessantina di foto “24×30 raccolte in album. Le foto che riprendevo durante le manifestazioni ero sempre accompagnato da mia figlia che guardavo con occhi ben aperti perché mia figlia,( Donatella), cercava di raggiungere i suoi compagni, di Università, sempre più arrabbiati di noi del Sindacato. Una sera si volgeva di notte una manifestazione antifascista vicino piazza Navona e sia Donatella che Elisabetta volevano partecipare, io volli accompagnare le ragazze perché immaginavo che gli studenti avrebbero fatto casino e così fu perché volavano le bottiglie Molotif e la polizia sparava proiettili di gomma, ad un certo momento sentii le ragazza tremare, allora dissi: risposero: quella fu l’ultima volta che Donatella ed Elisabetta andarono alle manifestazioni studentesche. In quei tempi appresi tanti misfatti occorsi a politici ed altri grossi papaveri. Inizio con il delitto Sotgiù Montesi, lo IOR Banca Vaticana con Cippico La Mostra Dell’Aldilà era un’indecorosa vigliaccheria del Partito della Democrazia Cristiana che con quella mostra itinerante infangava noi comunisti italiani e russi mesero prima di entrare, in quella bolgia infernale,un soldato russo che aveva un bambino in bocca mentre lo mangiava. Dentro la bolgia, una grotta rossa quasi buia c’era di tutto anche una forca a paletto che impiccava un contestatore russo ma quello schifo finì a Terni perché un visitatore si accorse che l’impiccato era lui e no un russo; era un operaio dei forni dell’acciaieria della Terni che si riconobbe e denunciò il fatto. Così finì la porcheria chiamata Mostra Dell’Aldilà. Poi ci fu lo scandalo con il bandito Giuliano e del suo Sottocapo Pisciotta morti in circostanze misteriose. Da allora gli scandali si succedettero all’infinito , ne racconterò alcuni per non dimenticare i Governi che l’Italia ha avuto ed ancora ha. Altra porcheria fu la truffa Chiamata Dei Vagoni Letto o delle Lenzuola d’Oro, poi ci fu la truffa degli ERCULES, aeri acquistati a prezzi gonfiati che costò il carcere all’ON Longo e Tanassi Ministri del Governo DC, ancora il grosso scandalo del SIFAR che fece dimettere il Presidente della Repubblica Antonio Segni. Non si può dimenticare GLADIO scandalo di dimensioni Internazionale però in Italia si può fare tutto. Quando va bene alla Chiesa e agli americani ed al grande capitale, non è da dimenticare l’assassinio del giornalista Mino Pecorelli che ancora è un fatto irrisolto. Arrivano poi le bombe, alla Banca dell’Agricoltura, la bomba a Brescia, la Bomba all’Italicus, la bomba alla Stazione di Bologna, la bomba sul treno per Reggio Calabria dove i sindacati cercava di arrivare ma non sono mai arrivati, su quel treno cero anche io. La I° Repubblica finì per lo scandalo Mani Pulite, con Craxsi, e la Democrazia Cristiana, tanti ministri, segretari di partito, e grossi industriali. Atra nefandezza fu il ritorno alla normalità fascista. Tutti gli alti gradi dell’esercito che durante la Resistenza erano nascosti, anche sotto terra, mentre sarebbero stati necessarie sulle montagne per frazionare i gruppi e avere più potenza di fuoco, per avere meno morti; però quei signori hanno ripreso il vecchio posto, con gli arretrati dei stipendi, e ricreato la burocrazia come ai tempi del fascismo. Gli industriali impauriti durante la resistenza si legarono con la Repubblica di Salò, ma quando miseramente finì si nascosero nella sporcizia dei partiti nati come funghi velenosi: finita la guerra di Liberazione uscirono come larve velenose dal bozzolo per riprendere il loro posto con più scelleratezza di prima, ormai sicuri che la DC li avrebbe aiutati e difesi. Noi partigiani del popolo abbiamo fatto come fece Cincinnato che appena finito il nostro dovere tornammo alle nostre case senza chiedere nulla, e nulla ci diedero. Nel 1952 dopo un mese che avevo sposato Tina dovetti emigrare a Roma perché come metalmeccanico al mio paese non c’èra lavoro. Sono stato sempre un operaio molto capace ed allora mi presentai presso una azienda di importanza nazionale, mi fecero fare la prova e risultai idoneo al 100×100. Come documento presentai la tessera dell’”AMIGO” Governo Militare Alleato; mi dissero di ritornare fra tre giorni che avrei subito iniziato a lavorare perché ne avevano urgente bisogno. Il terzo giorno mi presentai alle 7,30, mi fecero aspettare fino le 9,30, poi un funzionario mi disse che per ora non avevano urgenza e di ripassare fra 5 settimane. Dopo 5 settimane mi ripresentai ed il portiere al cancello mi chiese :< ma che cazzo ai fatto? Qua si dice che sei un bravissimo elemento però hai fatto il partigiano e qua non vogliono gente come te, io sono un invalido della guerra 1915 1918 e ti capisco, ma se vuoi lavorare fatti fare una raccomandazione da un prete, ma sarebbe meglio da un vescovo e non presentare più quella tessera che a te fa onore ma a loro non piace>. Tornando a casa, per strada ripensai a ciò che mi disse il mio amico Felice Strona: – fu un profeta. Questo succedeva nel 1949 ma da quel tempo le cose in Italia sono sempre peggiorate perche i Governi che si sono succeduti sono sempre stati o Democristiani o insieme ai Socialisti ma sempre antioperai. I lavoratori dal 1969 insieme ai studenti hanno cominciato a contestare tutto, a occupare le Università le fabbriche così si giunse ad un piccolo miglioramento sociale. Sono comparse poi le Brigate Rosse e le Nere, poi assassinarono l’ ON Aldo Moro e la Scorta, furono poi emanate Leggi Speciali e Governi di Centro Sinistra e con l’entrata al Governo del partito Comunista si riuscì a far passare la Legge dello Statuto dei Lavoratori, per anni i lavoratori ripresero un poco di respiro. Mentre la società civile camminava claudicante, la Mafia e la Ndrangheda cresceva, anche perché una parte del popolo del sud era senza lavoro, per vivere si associava alle cosche fino alle catastrofiche stragi di Falcone prima e Borsellino dopo; senza contare i magistrati assassinati prima. Lo Stato inviò in Sicilia il Generale Dalla Chiesa che aveva sconfitto le Brigate rosse, ma in Sicilia perse la vita insieme alla moglie in un vile attentato mafioso. Si seppe poi che il Generale fu inviato in Sicilia dallo Stato perché poteva dar fastidio. Nel 1994 si presentò sulla scena politica un grosso capitalista: BE R L U S C O N I che proprietario di tre neutwort: Canale 5, Italia 1, Rete 4 , bombardava di propaganda il popolo con promesse che ancora aspettiamo. Vinse le elezioni con un massimo di voti. Essendo sicuro varò leggi passate senza essere discusse in Parlamento cercando con tutti i mezzi di favorire il mercato. Oggi l’Italia a aumentato il debito pubblico e l’Europa ci considera una nazione di seconda categoria. Le fabbriche italiane sono quasi tutte ferme ed i disoccupati sono circa nove milioni , quanto potranno reggere ancora? Ultima :Berlusconi Silvio dice di dimettersi 9 -11-2011-

APPENDICE

Quando andavo a scuola, come scrissi, la prima maestra fu Livia Rossi, un romagnola, che ci disse il perché l’Italia aveva avuto 600.000 morti e tanti sacrifici sul fronte di guerra. Si poteva evitare? Rispondo ora:< L’Italia prima del conflitto faceva parte della Santa Alleanza con Austria e Germania le quali avevano promesso che se l’Italia fosse rimasta neutrale avrebbero ceduto Trento e Trieste e la Dalmazia a guerra finita. L’Italia non fidandosi, ruppe l’Alleanza e si alleò con Francia e Granbrettagna ed entrò in Guerra e vinse solo quello che aveva conquistato ma la Dalmazia non la vide mai. Scrissi anche che l mio amico Strona mi aveva, allora, detto: Noi partigiani vinceremo perché abbiamo il popolo con noi ma finita la guerra sarà come prima perché il grande capitale è quello che fa fare le guerre alle Nazioni, la politica è una farsa. E così è. Dopo morta la prima moglie mi trovai solo e sempre più avanti con l’età, la mia Donatella si sposata con l’avvocato Sergio Auriemma ed Elisabetta si sposò con Patrizio Torella, decisi allora di avere una compagna, così sposai una donna molto bella per i suoi 46 anni, Anna Maria Piersimoni, vedova di un mio amico di gioventù che ha una figlia con lo stesso nome di mia figlia Donatella. Benché io non sia il suo vero padre, Donatella mi rispetta e mi vuole molto bene come fossi il suo padre biologico…Ora sono il nonno dei suoi figli, Pietro di 17 anni e Giovanni ci 6 anni che adoro come fossero nipoti naturali–

9 novembre 2011

 

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